domenica 29 novembre 2015

io/scarabocchio


 

la bambina che dà un bacino a nonna

c'è una conversione di un  io, nudo, nuovo, plastico, in un altro io.... di un dio in un altro dio...

la bambina selezionerà poi altre guance, più fresche, o più rassicuranti...

cioè non la bambina... quella cosa che è restata nel posto della bambina



il mio fronte aderisce agli strati fermi e estesi delle cose

si aggirano nella luce            brancolano nella luce a tentoni

signori




siamo come dei muti che parlano con gesti fonematici e grafici

bisognerebbe aprire la scatola, e trovare la cosa

dentro cane, trovare il cane, dentro nero, trovare il nero.

ma cane vola nell’aria...cane è sempre nero, seppure il cane è chiazzato

e rosso non è affatto rosso, anzi è un po’ giallo e violaceo, perché sibila e arrota...

 
il verde acquoso e scarico del palazzo anni ’50, e il garage abbandonato con l’erba cresciuta ai lati, l’asciugamano rosa, teneramente brillante nella luce di prima mattina, lo stare e disporsi delle cose, il loro peso, colore, consistenza mattutina, e l’incomprensibile transito trasversale degli uomini, la presenza di un io coincidente col mio corpo che suscita le cose...la necessità e sensatezza delle cose, la matematica del loro disporsi del mondo...il loro accadere una volta per tutte....tutto ciò ci riguarda poco, ci rendiamo conto che accade dove noi non c’eravamo ancora... o eravamo lì lì per esserci...

 
io non sono del mondo, ho il linguaggio rotto

in una mattina di sole o guardando un corpo io vedo degli spazi aperti, la trama non tiene

il corpo flessuoso, gommoso, sgusciante e vivo della lucertola a 2 passi da me...

nella donna, una tenerezza liscia è rappresentata dalla tenerezza liscia della carne...

qualcosa che c’è, nell’acme del saperlo – le meccaniche e i bisogni del corpo saturano l’oggetto... 

 

mi trovo esattamente nel punto in cui non so che sono, della carne bianca si aggira sotto un cielo violaceo e freddo, della roba gelatinosa fa tempo in me, della lingua si ammonticchia in uno scarabocchio, un grumo, che nemmeno mi appartiene, strano




essendo a forma di uomo (pochi peli, occhi, percezione del tempo ecc.), e essendo per varie altre ragioni classificabile come tale, esisto primariamente nello spazio meraviglioso quanto poco appariscente e spesso inavvertibile del mio linguaggio....


la mia carne sostiene uno stato stabile di rappresentazioni che fanno la coscienza

lo strano mare. lo strano dei fatti. lo strano dei grassi organismi umani, levigati, agili, sonori (ma io sono di loro, sono anch’io questo strano)

tutto il linguaggio è perforato, tutti i colori hanno delle colature, tutte le parole vacillano e hanno ripercussioni nell’azoto e l’ossigeno dell’aria, e tutto all’improvviso diventa molto piccolo e poi si sfilaccia, si estingue...

ci sono degli spifferi, ci sono lame e fasce di luce

io sono la strana composta che è tutto: azzurri e fegati, memoria e pène, architettura di aminoacidi e luce che sfiamma il cielo a sinistra, una pelle concatenata a un vuoto,  uno sfondo 


  

II

 


 


il sentimento invivibile del non essere io... non sono io perché mi perdo a ogni istante... non sono io perché nulla di ciò che è al mio posto è mio... 

c’è un filo esilissimo, la rappresentazione del posto in cui sono collocato, che mi fa credere di essere me...

questo allontanarsi da sé incessante, questo smottare incessante può essere drammaticamente rappresentato al corpo da un oggetto insignificante che è stato qualcosa in un io che ero 20 anni fa, un biglietto, un ricordo, un oggettino legato a un evento che riproduce nel corpo quell’evento...

questa sovrapposizione artificiosa in un istante presente di 2 immagini totalmente incomunicanti,  disgiunte, remote,  ci significa violentemente questa cosa: come non siamo la cosa che era contrassegnata col nostro nome 20 anni fa, non siamo nulla nemmeno ora.

ha preso luogo nella nostra carne una combinazione di frammenti d’aria sagomata, questo gioco ha utilizzato per un certo tempo il materiale disponibile all’interno di una sacca di pelle in qualche modo segregata....

rottami, detriti, pezzi anonimi,  senza un contrassegno... relitti di suono, risonanze di fricazioni di glottidi, lingue, denti perse nell’aria, aste e asole e allineamenti di nero che si convogliano attraverso gli occhi nelle sacche neurali...

la memoria in qualche modo stabilisce una solidarietà fra i luoghi che essi occupano...ma è una congettura...noi possiamo sapere con qualche certezza che eravamo seduti su questa poltrona un istante fa, perché quell’istante era fisicamente contiguo, addossato all’istante presente, ma possiamo solo ricostruire l’istante, e la nostra collocazione, di prima...

questo è quello che ciascuno arriva a chiamare pomposamente la propria psiche, io, coscienza,.... accorgersene è traumatico, saperlo è insostenibile...

se c’è un me, dura meno del tempo di un’identità...ma nemmeno in quell’istante, quel me sono io, piuttosto della carne che esegue una lingua... solo ora che mi scrivo, che mi penso, io sono la mia credenza...

 

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