mercoledì 25 aprile 2018

Senegal 3 – il paese-battigia

                                                                 
 
 
per la terza volta in senegal. nel pezzo riciclo (senegalescamente?) alcuni scritti precedenti

 

il senegal non produce niente: connette, scambia, ricicla

 
è un niente che produce niente e scambia niente. terra sabbiosa sotto il sole, è vivo solo lungo la striscia che lo congiunge al mare. è un paese-battigia.

 
è una spuma, l’inflazione prodotta dall’agitazione, dall’impatto di una terra secca con la pervasività vitale, che tutto connette e scambia, dell’acqua. dal mare viene il pesce, dal mare viene la merce, sul mare si fa il turismo, dal mare viene l’umidità notturna e l’acqua dei pozzi costieri che fa sopravvivere le poche grame piante
 

colpe e meriti dei senegalesi. sono sostanzialmente buoni, sociali, solidali. in occidente e altrove si è sviluppata una certa tipologia di uomo-predatore, che qui probabilmente è filtrata già somaticamente....
quella linea di mutazioni che ha prodotto il volto rapace di aguirre, qui si è strozzata negli occhi malinconici e nei corpi armoniosi e forti..

 

aguirre, furore di dio.... la furia del dio di pelle bianca... furia di sterminio, di possesso, di sopraffazione... un paese che era già nulla, che era solo corpi, con lo schiavismo fu depredato anche di quelli...

  

le colpe: sono restati animali, non astraggono, hanno un’intelligenza transattiva (maometto era commerciante), ma sono irretiti da superstizioni e ignoranza. non escono da sé, non escono dal corpo.

 
harang, argent
sulla spiaggia povere donne affumicano l’hareng, il pesce, con la plastica bruciata, il porto dei pescatori di mbour è tutto un immondezzaio. sulla strada di joal ci ferma la polizia: il tassista si fruga nelle tasche, immagino che cerchi i documenti, invece tira fuori direttamente l’argent, il denaro. ripartiamo dopo pochi istanti di contrattazione

 
in occidente nei rapporti con l’altro prevale l’aspetto competitivo – la contrapposizione. mi individuo, mi distinguo, mi contrappongo anche nel chiedere e ricevere un’informazione, e questo lo manifesto anche solo con un gesto o tono di voce. qui hanno capito che la parola è solo circolazione interna di invisibile in un grande organismo collettivo

 

in senegal prevale certo una strategia di sopravvivenza solidale e gregaria. ma esiste poi davvero l’uomo buono, o semplicemente la sopraffazione qui ha assunto forme più attenuate e indirette? successo, denaro, rango, prestigio contano quanto in occidente... i marabutti, i politici, i militari, i calciatori (in liberia weah è diventato addirittura presidente) e i cantanti (il mito nazionale youssu ‘ndour) di successo... gerarchie più ingenue e meno verticistiche...  la criminalità comune si riduce a furti e truffe, la sopraffazione non è mai violenta
 

i guineiani sono ancora più neri, ancora più disgraziati e ancora più sfruttati dei senegalesi, e fanno i lavori più umili e faticosi per pochi CFA
 
                                                                  
                                               guineiani caricano un container di ferro vecchio
  

il volto del bianco è la prima pagina bianca, dove si può scrivere in bella e chiara grafia l’interiorità, l’invisibile. in particolare il primo segno di scrittura è il sopracciglio – comparso con l’homo sapiens – curiosa linea di peli, prima linea mobile, flessibile, orientabile, oppositiva – dunque prima scrittura. ancora oggi i movimenti del sopracciglio hanno una funzione tanto decisiva quanto occulta e subliminare nei processi di valorizzazione sociale (il bene e il male lo comunichiamo e costruiamo soprattutto con alzate e aggrottamenti di sopracciglia).
ciò favorisce l’evoluzione – l’informazione, la tecnologia

 
ero nero
ma anche per ciò mi piacciono i neri, sono meno scritti – meno tecnici. sono meno una scheda perforata, un quaderno quadrettato, e più un materiale, una sostanza, un’essenza.
un nero lo ero. io sento nel corpo del nero tutta la profondità della storia dell’uomo, tutte le vicende somatiche che ci hanno portato dalla pietra a questo insensato, confuso, artificioso affastellamento di segni che è un io.

 
dakar
dakar, allucinazione reticolare, immenso tessuto senza inizio né fine, se non i contorni irregolari delle coste, che sfumano nella luce estatica dell’oceano: una specie di tenebra luminosa che avvolge l’allucinazione. 


in questo aculeo di terra che spunta dall’Africa nera la natura pulsa e ingorga le sue energie sorgive con più violenza,


è un’allucinazione fatta di faglie cupe e abissali e luci abbaglianti e fosforiche, di vampe di colori e puzza insopportabile (è la miscela miasmatica del CO2 delle auto e le esalazioni delle fogne a cielo aperto, per fortuna spazzata di continuo dagli alisei)


procedendo nell’interminabile budello rettilineo dal centro al sobborgo di wakhinane (vado al matrimonio del mio figlioccio ablaye), 3 ore di code estenuanti, le auto rugginose, sbrindellate e pestilenziali (tutti scassoni euro zero, tutti residuati occidentali) si accalcano una sull’altra come una mandria ingovernabile, sgasando e strombando, rischiano ogni momento di travolgere donne e bambini, o i ragazzi appesi ai portelloni dei piccoli soupere fatiscenti e variopinti, e quelli le cui teste rigurgitano dai finestrini. un camion manda in frantumi lo specchietto di un furgoncino, ma nella sardana apocalittica nessuno fa caso al turbine di schegge che vorticano nella luce prima di spargersi a terra. i gasteropodi molli e teneri nei gusci di lamiera ridono e comunicano fra loro imperturbabili, a voce o coi portable, e le loro risate rendono più irreale, trasumana e imperscrutabile la scena. la polvere ocra si gonfia sulle strade sterrate che intersecano i mercati e le bidonville, ma il miracolo (la luccicanza del sacro) è che questo coacervo amorfo è attraversato e come sospeso in una dimensione onirica dalle meravigliose, altere e illese donne senegalesi, inspiegabilmente intatte, pulite e eleganti, flessuose e sofficemente ancheggianti nelle loro livree sgargianti e fiabesche, da cui affiorano le carni strepitosamente lucide e nude, o dalle folate dei bambini dagli occhi allegri e malinconici, d’uccello e di scimmia, di cane e di statua greca del periodo arcaico. fra 15 giorni è la grande festa dei montoni, il tabaski, e i piccoli greggi sono disseminati ovunque, rovistando fra l’immondizia accatastata e brucando i rari arbusti. un bambino abbraccia e sbaciucchia una capra barbuta come si fa da noi con i pupazzi dei pokemon. 


natura
nei colori ignei, clamorosi, radianti, nelle pelli seriche e lucenti, nell’odore primitivo, ferino, e insieme infantile e fruttato, che promana da quelle pelli, nelle muscolature vigorose e prominenti fasciate da quelle pelli – i contrasti si impongono con più evidenza.

 
natura?
nel quartiere di wakhinane fotografo degli splendidi aironi bianchi, che nidificano liberamente sui rari alberi, e spiego ai bambini che mi accompagnano che mi piace fotografare “les oiseaux”. mi fanno capire che hanno degli uccelli molto migliori, e li seguo in una catapecchia maleodorante di pesce essiccato. nella semioscurità, con gli sguardi luccicanti di orgoglio, mi mostrano il tesoro di 4 galline spelacchiate e starnazzanti. mi viene in mente che la nostra più preziosa rivista di ambientalismo si chiamava airone, e che qui forse gli preferirebbero un nome come gallina. forse non avrebbero torto, un airone è infine una gallina stinta, nasuta e col collo curvo. 

 

l’immenso reticolo che ricopre compattamente la terra rossa e umorosa della brousse, è formato da cellule umane avvolte nel triplice guscio degli abiti, delle auto e delle case. come nella nube quantica, nel web, nella blockchain e nel sistema nervoso, i punti della rete fluttuano freneticamente da un ganglio all’altro: gli uomini dentro o fuori della capsula di lamiera, attraverso i nodi di scambio delle case o i macrogangli dei mercati, o collegati fra loro dalla fittissima rete di fatiscenti telecentre o portable della vodafone e la tico. gli uomini mutuano incessantemente il loro posto fisico e psichico, le loro informazioni e esperienze, il loro denaro e i loro beni.

 

scambiano e commerciano tutto, anche i loro stati psichici, ovvero quello che chiamiamo anima, ma poiché hanno un senso della proprietà poco accentuato, non la perdono, come accade in occidente. il loro commercio è dunque essenzialmente una forma della comunicazione, filosofia che si giustifica nella figura di maometto, commerciante oltre che mediatore fra umano e divino. 

                                                                
what else?
 
il 62% del Pil senegalese è prodotto dallo scambio, cioè dal commercio e le telecomunicazioni, ma il problema è che attraverso questo scambio qui si scambia il nulla (in ciò assomiglia in maniera inquietante all’economia virtuale). il senegal importa tutto e non produce nulla: produce pulsazioni: un grande battito che si irradia fra la terra e il mare. nello stesso modo non producono nulla (il reddito pro-capite è estremamente basso) e non sembrano perseguire una finalità precisa le singole cellule del sistema: per una legge strutturale, infatti, maggiori sono le dimensioni e la densità del sistema, minori sono il valore e la libertà d’azione individuali. gli uomini agiscono in base a un impulso impersonale e indeterminato: sopravvivere, e far sopravvivere il sistema. ciò spiega e determina anche la grande capacità comunicativa di queste popolazioni, l’empatia e simpatia e quel senso di accorata, intima solidarietà – flebile e depotenziato nelle nostre razze – che coinvolge e commuove il visitatore di queste zone. 

 
la capsula ermetica, il grande “emboutillage” umano che è Dakar, ha solo un punto di comunicazione con l’esterno: la preghiera: 5 bocche di deflusso, in 5 determinate ore del giorno, in cui i dakarensi, nelle moschee, in stanzette dedicate, o dovunque riescano a stendere un tappetino, con una devozione e uno zelo ben maggiore di quello di noi occidentali, entrano in contatto con ciò che non comprendono. posto che la religione sia davvero un legame fra l’umano e il non umano, il che è ancora più dubbio nel caso di umani particolarmente umani come gli africani. qui la funzione coesiva e sociale della religione si manifesta infatti con particolare evidenza, le feste e i matrimoni sono eventi collettivi che accomunano nella frenesia della danza e della preghiera tutta la comunità, le foto dei marabut, rigorosamente stinte dal sole, sono attaccate ovunque, e i loro lunghi discorsi vengono diffusi di continuo dalla tv nazionale e ascoltati con grave attenzione. e tuttavia se il sacrificio, il dispendio, rappresenta la componente propriamente mistica e sacrale della religiosità, anche questo carattere è qui più forte che altrove. se le rigorose interdizioni (alimentari, sessuali, economiche) e regole musulmane (che nel pacifico Senegal non assumono mai la forma del fanatismo) fossero finalizzate, come nell’antipodica etica protestante, alla produzione e all’efficienza, se il culto di Allah integrasse in sé quello del lavoro, o almeno lo contemplasse, lo sviluppo non avrebbe assunto le forme dell’inviluppo, del viluppo che soffoca e irretisce questa megalopoli. l’allucinazione reticolare di Dakar è dunque anche l’immagine dell’umano sospeso nell’indeterminato, della vita che agisce nell’inconoscibile. 


qui il tecnologismo e il consumismo occidentale si sono andati a sovrapporre violentemente e discontinuamente a una cultura arcaica, generando una sorta di tribalismo tecnologico, di tecnologismo istintuale. arrivano le auto, i cellulari, le mitologie televisive, ma continuano a colonizzare, in forma meno cruenta ma più strisciante e insidiosa, un tessuto che non ha avuto il tempo di strutturare difese e anticorpi culturali, attecchiscono su psichi irriflessive, che ne vengono spesso devastate, o li metabolizzano in una forma confusa e instabile, una forma estremamente dinamica, ma che in ogni caso porta con sé tutti i deterioramenti e impurità dell’imitazione. senghor è stato un “grande” presidente (guida dell’indipendenza nel 1960, più volte candidato e inspiegabilmente privato del nobel per la letteratura) perchè è stato uno dei teorici della negritudine e della riscoperta delle radici territoriali. eppure si ha talvolta la preoccupante impressione che anche quella di natura sia una categoria “bianca”, importata, o tout court un artefatto che i neri potrebbero rifiutare. 

                                                                       
                                               8 domande a senghor (storia illustrata, 1963)


l’africano è un sincretista, assimila, mescola, centrifuga, secondo una modalità che è infine squisitamente culturale, e proprio in virtù della quale, insieme a una serie di comportamenti che a noi possono apparire spuri o kitsch, ha elaborato nel tempo ciò che chiamiamo negritudine o identità culturale africana. alcuni studiosi di colore sono arrivati peraltro a considerare lo stesso relativismo di matrice antropologica, che vorrebbe salvaguardare i caratteri etnici di questi popoli, come un’ennesima ideologia di sopraffazione, finalizzata a confinare le culture africane in un presunto primitivismo, e incapace di riconoscere la dinamicità della loro nuova realtà. 


eppure bisogna anche ammettere che esistono valori peculiari di questi popoli, esiste una loro identità, radicata nella biologia, nella geografia e nella storia che va difesa dalle acculturazioni e contaminazioni occidentali. basti pensare alla ricchezza emotiva (all’abissale divario fra indici del benessere e benessere percepito, in gergo sociologico) dei bambini di wakhinane, città- dormitorio della quale di giorno essi diventano padroni incontrastati. ebbene, è difficile immaginare una forma umana dell’ allegria più pura di quella che si impossessa di questi bambini. è un’allegria che scoppia, che crepita, che spumeggia dal sangue giovane, che si sgrana a raffiche dagli occhi e dai polmoni. è il corpo libero che pulsa, che si rotola nella sabbia e armeggia con le lattine di pomodoro. è un’allegria unanime e sincrona, a fasci, più peculiarmente di quanto il riso non sia sempre una manifestazione psichica collettiva. 


qui siamo vicini alle radici biologiche e culturali dell’uomo, e ogni fenomeno psichico si manifesta nella sua forma più pura, intensa e disinteressata. se l’africa è un’immagine altamente probabile del nostro futuro, è perché è da questo centro che si è irradiata la nostra specie, ed è qui che, grazie alla nuova velocità di scambio informativo del mondo globalizzato, la tecnologia di ritorno potrebbe assumere le sue caratteristiche definitive e più propriamente umane. dopo le mutazioni che milioni di anni fa hanno prodotto la nostra variante depigmentata e esangue, fisicamente degenerata, l’africano ha ora la possibilità di riappropriarsi del mondo, o solo, speriamo dal nostro punto di vista, della propria funzione e identità.

 
l’africa è la nostra origine, l’africa e giovane, ed è per questo attraente, ma è vero che, se il sogno di ogni africano è l’Europa, è irresistibilmente e fatalmente gravitata dall’Occidente, e che dunque l’Occidente e l’Africa devono riconoscersi un desiderio e una responsabilità reciproci.

 
forse questo paese mi piace per un equivoco... mi piace perché rappresenta il fallimento del progresso... perché ha mancato il progresso, e ha il fascino della nave sfasciata che va avanti da sola, o quello dei luoghi dismessi e abbandonati, delle archeologie industriali... perché non è riuscito a diventare efficiente, ma ha lasciato l’uomo quel che è, una cosa insensata del mondo... perché è un’immagine della nostra impotenza...

è un occidente dismesso

è un paese pornografico, dove si vede dietro la pelle la carne delle cose, il meccanismo, dove si vede dietro i vestiti, dietro le parole, dietro il camuffamento del discorso l’amore che avviene...ma senza le pretese insensate della descrizione scientifica... un paese che è poveramente se stesso – e quasi ontologicamente...
 
                                                                          boutique
                                                                   

Nessun commento:

Posta un commento